Dopo un giorno di svago, sono pronta per condividere con voi la mia esperienza suicida in occasione della quarantunesima edizione della Valli e Pinete. Sarà un racconto lungo. L'ho scritto per me, ma ringrazio chi vorrà arrivare in fondo.
Quando mi sono iscritta, doveva essere un normalissimo lungo in preparazione alla maratona di Milano. La mia prima maratona. La seconda che cerco di preparare. Due settimane fa faccio un lungo da 30 chilometri in solitaria sotto una grigia e pesante pioggia milanese. Finisco l'uscita in buone condizioni. Il lunedì notte inizio a riversare da tutti i buchi (scusate la finezza) tutto quello che si trova dentro al mio corpo. La febbre oscilla tra i 39 e i 37.5 grazie alla tachipirina. Sto a letto tutta la settimana, perdo sei chili, ma pian piano mi riprendo. Martedì scorso finalmente non ho febbre, d'altra parte non riesco a reggermi in piedi. La decisione ufficiale è quella di rinunciare a malincuore alla Valli e Pinete.
Giovedì mi rimetto le scarpe e corro per ben 4 km, in affanno ma tutto sommato non mi sento neanche malissimo.
Col vostro aiuto mi convinco di poter almeno provare ad indossare il mio pettorale. Per questo devo davvero ringraziare chi mi ha sostenuto raccontandomi le proprie esperienze e facendomi sentire non troppo incosciente.
Ufficialmente a parenti, fidanzato e tutti dico che non correrò. Non voglio far preoccupare nessuno. Tanto meno voglio affrontare discussioni con qualcuno che non può o non vuole capire cosa significhi per me la corsa.
Sabato vado a prendere il pettorale: il pacco gara lo si ritira solo restituendo il chip, inoltre la mia dolce metà ha deciso di correre da solo la mezza maratona. Cerco di mostrarmi affranta per "la gara mancata"; in realtà mi sento bene, sono eccitata, agitata ed ho una paura pazzesca.
Sabato sera preparo di nascosto i miei datteri, quattro: uno ogni cinque chilometri a partire dal decimo, così come mi ha suggerito la nutrizionista.
Alle sette di domenica suona la sveglia, ripeto a tutti che correrò la non competitiva di un paio di chilometri, giusto per muovermi un po'. Una parte di me continua a ripetere "è una ca..ata - è una ca..ata - è una ca..ata". A mezz'ora dalla partenza faccio la confessione: dico al socio-fidanzato che farò la mia corsa. Mi rimprovera, ma mi dice anche che se lo aspettava, mi conosce e sa che non lascio mai nulla di intentato. Mi lascia sola per posizionarsi un po' più avanti nella griglia e si fa promettere che se dovessi sentire che qualcosa non va, mi fermo e torno indietro. Sappiamo entrambi, però, che in vita mia non ho lasciato a metà mai nulla.
A pochi minuti dallo sparo sento un gran bisogno di scappare via, ho troppa paura. Una vocina mi dice seria che non dovrei essere lì. La ignoro e parto. Ritmo lentissimo come mi è stato consigliato, 15" più lenta del mio ritmo maratona. Per sicurezza faccio 20", un rapido conto mi dice che se sono costante arrivo in tempo e mi avanzano anche dieci minuti per eventuali soste al bagno o di sconforto.
I primi chilometri sono noiosissimi, li ricordo bene. L'anno scorso la Valli e Pinete è stata la mia prima mezza, la mia prima competitiva. Quegli stessi chilometri un anno fa li feci a 5:30, questa volta a 6:20. A ogni cartello penso: "Torno indietro". Il paesaggio mi deprime, ma questa è una battaglia e voglio vincerla.
Si arriva dentro alla pineta. Mangio il primo dattero. Al chilometro 9 una ragazza mi si affianca, mi guarda il pettorale e mi propone di proseguire insieme. Abbiamo circa lo stesso ritmo e facciamo entrambe la trenta. Mi dice che vuole chiuderla in 3 ore - 3 ore e dieci. Io le confesso che sarei contenta di finirla e che al bivio tra la mezza e la trenta deciderò se tornare subito seguendo il percorso della 21 o tentare di finire la mia gara. Passo al decimo chilometro ad 1h07'. Tra me e me, mi chiedo come quella ragazza possa sperare di poter chiudere in tre ore. Non occorre essere matematici per capire che a quel passo è totalmente impossibile.
A Marina ci sono i miei compagni di squadra a fare servizio. Fanno tanto tifo e mi incitano. Non partecipo molto alla vita di società, ma alle cene ogni tanto vado e mi conoscono. Mio nonno correva con loro e forse un po' mi associano a lui. Beh, insomma, sto correndo anche per lui. Ho sentito troppi racconti del Passatore per non provarci almeno una volta. Pensare a quei racconti mi aiuta. Li ho sentiti talmente tante volte che certe immagini le ho fatte mie, e nella mia mente mi vedo di notte ad un ristoro con ragazzini che mi offrono piadine.
Se non riesco a finire 30 km, come posso farne 100?
La mia testa da capra in questo è un aiuto, ne sono certa.
Mi carico e riesco a raggiungere il chilometro 15 senza problemi. Mangio il secondo dattero, ma mi accorgo che non ho fame e anzi, era meglio bere soltanto. La ragazza delle tre ore cede malamente e le darò quasi un quarto d'ora. Mi è dispiaciuto, ma non era obiettiva e forse, accorgendosene, ha perso un po' di testa.
Il bivio. Stacco improvvisamente il cervello e lascio che sia il mio corpo a decidere. Le gambe semplicemente mi portano ad imboccare il percorso della trenta chilometri. In quel momento mi rendo conto di essere davvero in gioco.
La mia gara ora è affiancata a quella di un signore di Pesaro, facciamo un bel pezzo insieme nel secondo giro dentro la pineta. Mi fa compagnia e mi aiuta a non cedere. L'avrei voluto ringraziare, ma al chilometro venti perdo anche lui.
Gli ultimi dieci chilometri sono tutti in solitaria. Manca ancora un'ora e venti minuti allo scadere del tempo, so di potercela fare. La solitudine però si fa sentire. Raggiungo un ragazzo in preda ai crampi, cerco di incitarlo, ma non riesce a correre ed è arrabbiato. Lo lascio in pace e proseguo. A questo punto non sento niente, non guardo il paesaggio, non guardo la strada. Corro a quella velocità ridicola senza neanche pensare. Le gambe vanno da sole e la testa è completamente vuota. Arrivo ad un ristoro senza neanche accorgermene. Saluto i volontari, scambio due battute e riparto.
Poi l'ultimo interminabile rettilineo. Mi annoia anche quando lo percorro in macchina.
Non c'è nessuno né davanti né dietro. Non posso attuare la strategia della testa di c..o, collaudata a Cittadella. La strategia consiste nel puntare un atleta davanti in difficoltà e cercare di superarlo. Si va avanti così cercando di raggiungere il prima possibile chi davanti ha problemi.
Penso allora alla villa dei Gardini. Decido che l'obiettivo è arrivare di corsa lì davanti, fermarmi un paio di secondi per guardarci dentro e continuare a correre fino al traguardo. Faccio così. Nel frattempo vedo un podista della trenta. Lo rincorro, lo affianco, lo saluto, lo incito e passo avanti.
La testa non è più vuota, so di starcela facendo. So che l'ultimo colpo della battaglia lo sferrerò io e che sarà il colpo della vittoria. Alla vista del Pala de André mi sale un nodo in gola. Un'occhiata al garmin mi consiglia di fare una decina di metri al passo per poter arrivare all'arrivo con una corsa brillante.
Il bello di arrivare tra gli ultimi è quello di avere lo speaker tutto per sè. Urla il mio nome e la mia squadra. Lui non sa che questa era una gara da non fare. Una gara che per me significa che non ho perso la mia forza di volontà, che sono ancora in grado di fare esattamente quello che voglio, come voglio e quando voglio. Taglio il traguardo correndo alla disperazione, esulto a braccia alzate, tanto ci sono solo io, lo speaker, un tizio che da i bollini della Scapaza e una volontaria. Loro sono il mio pubblico, i testimoni della mia vittoria. Per me sono centinaia di spettatori che applaudono la vincitrice di una gara importantissima. Mi appoggio ad una transenna e piango. "Va tutto bene?" mi chiede qualcuno, alzo gli occhi, sorrido e dico tra i singhiozzi "Certo, come potrebbe essere altrimenti?".
Entro nel palazzetto e cerco il mio fidanzato. Lui ha chiuso la sua mezza in 1h52'. Paradossalmente sono contenta che non fosse al traguardo ad aspettare il mio arrivo. Questa è una cosa mia. La mia continua rivincita e il mio continuo bisogno di dimostrare a me stessa di poter fare tutto.
Il tempo finale è stato ridicolo, ma ho centrato tutti gli obiettivi: l'ho conclusa, l'ho conclusa nel tempo limite, l'ho corsa praticamente tutta.
Mentre vado via, l'ultimo podista che ho superato mi ferma e mi dice ridendo: "Mi hai superato in volata, cavoli!" "...e che volata!" aggiungo io, ridiamo e lo saluto. Mi piacciono questi momenti, mi piace condividere questi piccoli tratti di cammino con degli sconosciuti che in quel momento sono esattamente come me, la storia della gara è diversa, ma lo stato d'animo lo stesso.
Un bicchiere di tè, uno sguardo alla classifica e si torna a casa. La tosse è tornata e non mi dà tregua, ma è l'unico effetto collaterale, a parte l'acido lattico, che non sentivo dai tempi delle camminate in montagna da adolescente...
Ora mi aspetta un altro paio di battaglie. La guerra la vincerò a Milano, se tutto andrà bene.
Da non sottovalutare la prova generale: i braghetti mi hanno scorticato tutto un fianco e i datteri mi smagano.
Questa è stata la miglior peggiore idea che abbia mai avuto, ed in canna ne ho un'altra bella grossa, ma questa è un'altra storia...
Ehi tu! Sì, proprio tu che hai letto fino in fondo!
Grazie!
