Non è stato il Tor che volevo e a cui avevo pensato da almeno sei mesi.
Dal Coda (ritiro di Pietro) per me è stata una lunga camminata in Valle d’Aosta, per tornare a Courmayeur.
Intendiamoci, sempre una bella esperienza e una immensa soddisfazione (giuro, e chi mi conosce ci crede: non pensavo di stare in quei tempi), sarebbe stupido e quasi insultante nei confronti degli altri concorrenti il non ammetterlo.
Però è certo che le premesse e le aspettative erano tutt’altre, quelle di un’avventura unica e irripetibile.
Già l’arrivo al centro è quasi irreale quando si viene investiti da una ubriacatura collettiva che trasuda della voglia di iniziare un bel sogno. E anche le incognite, prima di tutte quella sull’arrivare, fanno parte del gioco, farfalle che svolazzano nella bocca dello stomaco. Meno male che non abbiamo uno specchio fisso davanti alla faccia, così evitiamo di avere davanti il sorriso ebete del bambino che aspetta la partenza e intanto si riempie gli occhi di quello che gli accade attorno.
Siamo ospiti dell’ AMICO Offriends, quindi prepariamo il materiale ripassando i punti critici, dopo il ritiro del “magico” borsone giallo riponiamo le nostre cose e aspettiamo l’ora della presentazione e della cena.
La notte scorre molto bene, per me sveglia involontaria alle cinque e mezza, Pietro la tira fino alle sette e mezza.
Le ore sgocciolano via, fino a quando ci portiamo in zona partenza, entriamo nell’arena e attendiamo.
Durante il conto alla rovescia non smetto di stringere la spalla di Pietro con la mano, mentre lui, come è giusto, non ci bada e pensa solo a stare con sé stesso.
BUM!
Partiti. Restiamo insieme nelle vie di Courmayeur, circondati dal pubblico che incita e spinge, non ancora coscienti (o forse sì?) del vortice in cui siamo calati.
Salita all’Arp, lunga ma semplice. Nei miei piani il tratto comune del Tor, poi la discesa alla Thuile ci vedrà ognun-per-sé.
Invece no, Pietro decide di procedere assieme. La sua corsa in discesa è più sciolta e veloce della mia, ma riusciamo a mantenere lo stesso passo senza accelerazioni o frenate, anzi scambiandoci impressioni e tenendoci compagnia.
I primi 100 km li avevamo già fatti un mese fa come escursione, quindi poche sorprese. Lungo il Passo Alto, per fortuna intervallato dal Deffeyes, bene la discesa allo Zappelli, cazzuta la salita al Crosatie con un vento assassino che sposta dal sentiero, rinfrancante la discesa a Planaval, veloce l’arrivo a Valgrisanche. Prima base vita fatta di cibo e di notte in bianco.
SI VA!
Fenetre: perché?
Questa è la domanda esiziale. Va bene ritrovare il Baffo all’Epée, che si ricordava ancora di noi. Ma la discesa si conferma infernale soprattutto quando hai gente che ti supera (per inciso, tutti quelli che avevamo spalmato allegramente in salita).
Giù a Rhemes “obbligo” Pietro a dormire in branda, e gli fa un gran bene.
Scapicolliamo l’Entrelor (che a detta di entrambi si rivela la cima peggiore del Tor), arriviamo a Eaux Rousses dove dormiamo un altro po’ nonostante la presenza di due concorrenti e della loro squadra che a voce alta parlano nel dormitorio, delle coglione a cui ho augurato tutto il male possibile, una poi ritirata e spero con conseguenze, la verità.
La discesa dal Loson per me è brutta, ma vedo che pure Pietro inizia a avere qualche problema. L’arrivo a Cogne poi è distruttivo, se a ogni Tor trovo il bello dove prima non lo vedevo, qui ‘sto minchia di sentiero del re (o come si chiama) ha il potere di scartavetrarmi l’anima. Arrivo giù decisamente nervoso.
Però finalmente si dorme. E molto bene grazie a una scelta oculata dei posti branda.
SI VA?
Salita alle finestre di Champorcher.
Ora, non è il massimo della vita ma a me è sempre piaciuta.
A Pietro no, e devo dire che la cosa non mi rende difficile la via ma certamente me la appesantisce, non fosse che per la sensazione che il mio compagno risente della (oggettiva) monotonia del tragitto e del fatto che non si arriva più davvero, un “dettaglio” che sinceramente non mi ricordavo.
Il traguardo dell’ex rifugio Sogno e poi delle finestre non sono un appagamento sufficiente, non fosse che per il fatto che facciamo tutto al buio mentre per me qui voleva dire alba.
Eh sì, a questo punto posso già valutare come siamo in anticipo sui tempi. L’essere in compagnia sta giocando molto positivamente sul ritmo ma soprattutto sulla costanza del passo.
Al Dondena altra sosta, e pure qui consiglio a Pietro di dormire.
Attenzione: il bisogno di sonno è ben differente tra di noi, e non viene influenzato dalle rispettive risorse. Il fatto è che a 20 anni la necessità di riposarsi non è rimandabile come invece accade quando l’età è ben più avanzata. È proprio una questione organica, e mi pare giusto così.
Insomma, ripartiamo e ci abbassiamo.
Iniziano i suoi dolori alle ginocchia, e allora decide (cosa che mi piace assai) di separarci. Da adesso e per i prossimi ristori io correrò. Perché così mi va. Punto. Aspettandolo mentre al passo mi raggiunge, senza fretta e senza patemi di tempi né tantomeno di classifica.
Tutto questo fino a Donnas, terza base vita.
E ADESSO?
E adesso ripartiamo, dopo una sessione di massaggi e un tape alle ginocchia.
Purtroppo (ah, la fretta…) l’arrivo a Perloz non avviene nel mezzo della bellissima festa di paese ma presto nel pomeriggio. Comunque il succo di arancia è sempre un toccasana che lascia il segno.
E adesso, dopo la discesa al ponte inizia la salita, che ci fa incontrare amici tra cui Franco che ci tiene compagnia come solo lui è in grado di fare.
Arrivare al Sella è una fatica immane dritto per dritto, ottima ragione per fermarsi per birra e gelato.
Poi tocca scarlingare fino al Coda.
E adesso si va su, quasi 1000 m di positivo in meno di 5 km. Fino al sentiero criminale su rocce che perlomeno avevo fatto due settimane prima e che mi fa ricordare che il Coda si vede davvero solo alla fine. Prima è un’ipotesi che diventerà realtà, ma la consapevolezza di questo basta a malapena negli ansimi della salita inesorabile.
Però il Coda arriva.
E adesso?
Adesso entriamo consapevoli che il rifugio offre un letto solo ai giganti del Glacier, e va bene così. È una regola definita, quindi da accettare.
Mi scarico nello stomaco un tubo interi di Pringles, che il dio della buona alimentazione mi possa mai perdonare.
Pietro si mette a dormire come i bambini all’asilo dei miei tempi, testa sul tavolo e braccia rannicchiate.
Io non riesco, lo guardo e aspetto.
E adesso?
Adesso è passata un’ora, devo svegliarlo che c’è da andare.
Le ginocchia, le ginocchia gli sono bloccate.
E adesso?
Adesso, Pietro, io e te parliamo. Te la senti? C’è una discesa impietosa prima di salire alla Barma.
Quindi, adesso: che si fa adesso?
Adesso si molla.
Adesso.
Andiamo nel rifugio, la gestrice è netta, decisa e ci aiuta nella decisione.
Pietro si ferma.
Adesso.
Pietro, se vuoi mi fermo con te.
MA CHE COSA ca**o DICI! MA CHE COSA ca**o VUOI FERMARTI!
Adesso sono io il figlio, che il padre sta cazziando per la bestialità che ha appena detto.
Proprio adesso.
Non riesco nemmeno a salutarlo, lo tocco e esco dal rifugio, entro al tendone.
E adesso?
Adesso, vaffanculo, sto piangendo davanti al tavolo, in piedi.
Adesso, vaffanculo, il sogno finisce.
Adesso sarà solo una lunghissima camminata verso Courmayeur.
Adesso il mio Tor finisce, e finisce qui.
Ho lasciato mio figlio mentre cullava il suo sogno, mentre il suo sogno gli stava morendo in braccio. E io non ci potevo fare niente.
Ecco, qui è adesso.
Parto, scavalco la notte e entro nella discesa.
E adesso?
E adesso vado giù e non mi fermo e le rocce non le sento e il sentiero lo vedo appena ma sento che è lì e che potrebbe esserlo per entrambi e nemmeno mi accorgo di superare gente in discesa che in discesa io sono un gatto di marmo e poi finisce la discesa e inizia un falso piano che mi bevo dal collo direttamente e dopo una salita e anzi un’altra che poi entra nel bosco e c’è alberi e alberi da bere e no che non ho sete che qui si va senza pensarci che a pensarci la ferita fa male e mi hanno detto che ca**o dici e allora via dritti per dritti che qui si scherza un ca**o fino alla prossima cima che vuol dire la cima dopo e la notte non fa male e le stelle ormai non le vedo a adesso c’è questa corda e questi gradini infionzati nella roccia ma si passano e allora via via via che qui spiana e c’è buio ma qui si corre lo stesso che non si cade perché cadere sarebbe come morire e non è una cosa possibile qui e adesso almeno non per me che sto andando come un treno infatti sbuffo e fatico e penso ma non pensare che pensare adesso fa male e via via via via adesso adesso adesso.
E adesso?
Adesso sono alla Barma.
Ciao, mi fermo. Niente branda? Meglio, piglio questa coperta, mi sdraio e mi copro.
Dormo.
Poi mi sveglio. La mente è serena, quasi colpevole del proprio stato di grazia.
Esco e riparto.
Rocce, poi dislivello, poi ristori bellissimi, poi incontri e chiacchiere.
Pietro è lontano, Pietro sta bene, Pietro è là dove ha potuto arrivare. Lasciamolo stare, Pietro saprà certamente cavarsela.
Niel, polena più buona del mondo.
Loo, mi sento Harry Potter.
Giù a Gressoney, adesso riesco perfino a scherzare.
Allora era tutto uno scherzo?
Forse sì.
Adesso.
FINALMENTELAFATICA
Ciao Pietro, bello saperti ancora qui con me. Nella mia testa.
Fino all’Alpenzu ti dicevo che non c’era fatica ma, al solito, mi sbagliavo. Ne sto facendo tanta ma il rifugio arriva.
Poi si sale, questa è l’ultima faticaccia del Tor, da qui in poi è (quasi) tutta testa.
Bellissima la discesa, immaginifica.
Certo, quella a Champorcher già meno, ma passa pure quella.
Non dormo al ristoro ma riparto verso Grand Tournalin, che significa una cosa.
Alba.
Sole che colora le cime davanti a me prima di arancione, poi di oro.
Il cielo? Non è azzurro, è blu.
Giuro che da qui a Nannaz sono in modalità fiaba, poi al colle successivo corro fino a Valtournenche.
LA DURA
Barmasse passa bene, sono in gran forma e procedo ottimamente, senza capirne il perché ma godendomi appieno la sensazione magnifica di benessere pieno, di testa e di corpo, lo rivedrò anche dopo verso il Cuney.
Ma andiamo con calma che la strada è ancora dura e dritta e difficile (non è ormai più dura, adesso è difficile, la stessa differenza tra il complicato e il complesso).
Sono sentieri che mettono alla prova mentre l’incognita della salita al punto alto prima della discesa al Magià lo possa stemperare.
Finché arriva pure questa, sassi e sassi e roccia e traccia che conduce le gambe fino al rifugio, dove arrivo con un impeto che mi piace e che mi fa fermare il giusto.
Per poi una ascesa trionfale al Cuney, che aspetto con attesa quasi virginale, per essere finalmente preso con tutto il corpo al tendone. Dove scambio battute improvvisate circa il mio essere cittadino di piena pianura, inaspettato di fronte al sentiero che conduce al Clermont e poi al Vessona.
Ci arrivo in benedetta solitaria, quindi scendo nel bosco “maledetto”.
Qui la frontale mi abbandona, e per tre ore procedo piegato in avanti alla luce in modalità minima per risparmiare la frontale di emergenza che mi ostino a non utilizzare, sai mai.
Arrivo infine a Oyace, fino all’ AMICO Corry, che mi conduce negli ultimi metri al ristoro.
Due (due? Diciamo duemiladue) chiacchiere che mi rinfrancano, e Corry che mi presta la sua frontale.
Riparto direttamente verso il Brison che mi mangio letteralmente, per poi scendere a Ollomont.
CI SEI
Dormo finalmente, senza impensierirmi circa i tempi.
Mi sveglio e chiamo Pietro.
Gli ripasso il tragitto che mi manca. Il riassunto serve a me, che capisco ben poco di dove io sia. Ma mio figlio ha lo spirito per starmi dietro e darmi retta come lo si farebbe con un naufrago che perso la propria boa. Però funziona, e questo è stato un aiuto senza il quale non avrei saputo come ripartire, intorpidito da asteroidi di stanchezza e torpidità, sporco di sabbia, asciugato dal sale, brunito dallo sporco, allentato dalle sirene del torpore, lisergico come una siringa di morfina, ottuso dalla nebbia della mente.
La salita allo Champillon mi rigenera mentre penso alle altre edizioni, la rampa al rifugio è una salvezza imprevista e come tale di piena consapevolezza.
Poi la cima.
Scendo e apro una birra.
“A noi, per Dio! A quello che siamo! A quello che eravamo!
E a quello che saremo…”.
Da Ponteille in poi una lenta tortura, fino a Bosses.
Qui dormo, quasi due ore.
Va benissimo così, riparto come un furetto ma questa volta ho unghie e denti a proteggermi, salgo al Frassati e mi riposo mezzora. Con una birra (ah, quante lattine ho confiscato nello zaino, ciascuna buona per essere goduta nel punto giusto).
Salgo al Malatrà, lo passo e non mi fermo.
Ultima notte un orgasmo fin duro a sopportare da tanto è bello, sono qui e ci sono ora.
Il mondo è bello, e io mi sento bello al mondo.
Bonatti.
Bertone.
Poi giù.
Asfalto, inizio a correre.
All’ingresso del parco incredibilmente c’è Corry che aveva calcolato in maniera incredibilmente esatta il mio passaggio, mi corre accanto fino all’arrivo.
Arrivo.
Sono qui e sono finalmente tutto mio.
Firmo il poster finale AUGUSTOxPIETRO.
Fine. Adesso. Qui.
Bravo Augusto, c'è tutto nel tuo racconto, dal dramma all'epica, alle grandi storie d'avventura. Peccato davvero per Pietro, ma è giovane e si rifarà alla grande
augusto losio ha scritto: ↑23 set 2025, 21:17
delle coglione a cui ho augurato tutto il male possibile, una poi ritirata e spero con conseguenze, la verità.
augusto losio ha scritto: ↑23 set 2025, 21:17
delle coglione a cui ho augurato tutto il male possibile, una poi ritirata e spero con conseguenze, la verità.
Augusto è questo, o lo ami o lo odi. E noi qui non possiamo che amarlo!
"Conseguenze" non gravi, certo.
Ma persone così IDIOTE da non capire, anzi fottendosene, la necessità degli altri senza assistenza, grida vendetta.
Se vedo sul Bianco gente in calzoni corti e scarpe di tela, io le maledico.
Nessuna pietà per gli stupidi. Ce ne sono ormai troppi, e stiamo ormai stretti.