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Strava)
Oggi volutamente lento. Gambe un po' imballate. Tentato una tirata al decimo km che mi ha portato comunque ad un discreto - per me: 5:39. Faceva fresco e c'era moltissima gente a correre. Ai piedi le nuove Saucony ISO Triumph 3 appena arrivate: "come te... non c'è nessunooooooo...!" Saucony! Più avvolgenti e leggere delle Vomero 12 con cui ho "tradito" Saucony per la prima volta da quando mi sono messo a correre un po' più seriamente.
Chi ha la voglia di seguire questo diario avrà capito che più che di corsa è un diario di vita. Passata e presente. Assumendo che le due cose non siano lo specchio l'una dell'altra. Devo parlare a qualcuno quando scrivo. E questa audience è straordinaria per le sensazioni che riusciamo a condividere insieme pur non conoscendoci.
Oggi vorrei raccontare le più mie più belle corse in Cile. Allora lavoravo ad ALMA, impegnato a verificare le 66 antenne una ad una prima della installazione al sito a 5000 m. Era un lavoro gravoso, con turni a volte massacranti che arrivavano a 24 ore consecutive. Perfetto per uno che odia l'8-5

Tra l'altro 8 giorni su e 6 a Santiago, a casa, senza obbligo di andare in ufficio.
Una volta alla settimana mi svegliavo alle 4 e 40. L'autista mi veniva a prendere alle 5 per condurmi in aeroporto. Un'ora tra le strade deserte di Santiago. Un'altra di attesa al gate insieme ad altri colleghi o ingegneri minerari semiaddormentati. Poi due ore di volo fino a Calama, sperduta, e francamente orribile, città mineraria famosa per la miniera di rame a cielo aperto più grande del mondo, Chuquicamata. Una specie di Far West. Il rame di quella miniera è una delle voci più importanti del PIL cileno. Infine un'oretta e mezza di bus in un deserto ocra, desolato e affascinante, popolato solo da qualche sporadica Vicuña selvatica.
Dormivo tutto il tempo, per risvegliarmi a volte solo quando le ruote toccavano la pista del piccolo aeroporto nel deserto. Al punto che per me è diventato un riflesso condizionato addormentarmi in aereo prima ancora del decollo, con grande scorno di mia moglie che non riesce mai a chiudere occhio in aereo.
100 km dopo si attraversava il villaggio di San Pedro, popolato di turisti e "gringos", poi ancora un rettilineo di oltre 15 km nel Salar, e su fino all'OSF (Operation Support Facilities) a 3000 m. L'accesso agli ultimi 17 km di strada era interdetto al pubblico da un posto di controllo. La carreggiata era larghissima, a pendenza limitata, con curve ampie, coperta di un materiale di risulta delle miniere che si presenta come un asfalto chiarissimo e duro. Era infatti pensata per consentire a due delle enormi antenne da 12 metri di diametro di incrociarsi a bordo dei giganteschi "transporter" a 28 ruote.
Una volta arrivati, nell'aria rarefatta e con un Sole accecante, mi aspettavano per un meeting per scambiarsi lo stato dei lavori con il team del turno precedente. Poi il pranzo, e il lavoro fino a notte fonda, a volte all'alba del giorno successivo se qualcosa non andava nel complesso e ancora sperimentale sistema dell'osservatorio astronomico più grande del mondo. Nel qual caso ci si doveva inventare qualche soluzione per non rallentare i lavori. Altrimenti la notte passava tranquilla, monitorando i tanti schermi, pre-analizzando dati e riavviando ogni tanto i vari scripts. Eravamo sempre 7-8 nella sala di controllo per cui c'era il tempo di scherzare e chiacchierare, tra un caffé e l'altro. "Un astronomo è una macchina che trasforma caffeina in pubblicazioni scientifiche", dice qualcuno.
C'era una palestra all'OSF, con dei discreti tapis-roulant e molti attrezzi. Ma a me quella strada larga e liscia, che scorreva tra immensi canyon con la vista completa del Salar di Atacama faceva sempre venire una gran voglia... Così una notte, a fine turno, chiesi ai presenti nella sala di controllo se qualcuno voleva unirsi a me e provare a correre fino al "gate" di ingresso. Con la Luna piena il cielo di Atacama era così luminoso da permettere di leggere agevolmente un giornale. Senza, faceva paura l'immensità della Galassia sul cielo scuro, così scuro che a volte si aveva la sensazione di stare su un balcone appeso sul vuoto, quello che è in fondo la nostra sottile e precaria biosfera.
Si aggiunsero un'astronoma americana, una bionda un po' triste e molto intelligente, e un giovane cileno che operava le antenne. Partimmo verso le 3 o le 4 di notte, non ricordo bene, con la frontale dell'osservatorio a fare strada. Ma dopo qualche centinaia di metri ci rendemmo conto che spegnendola si accedeva ad un mondo incantato, fatto di creste all'orizzonte, riflessi del deserto, della strada e di qualche sagoma di llama o asino, di quelli che vivono in piccoli gruppi allo stato brado nella zona. Il vulcano Licancabur si ergeva spettrale sulla destra, fino a circa 6500 m di quota. Un paesaggio totalmente muto e immobile. La strada scendeva verso il Salar per 10 Km. Poi, dopo un ponte su uno dei tanti canyon, si imboccava un rettilineo di 4Km al fondo del quale si vedeva la lucina lampeggiante della barra di ingresso.
Quella volta corremmo fino alla piana a 2400 m di altezza. 10 km. Senza alcuna fatica. Il fondo era perfetto per correre. Il cielo faceva accelerare il cuore ancor più della corsa, facilitata dal pendio quasi costante e abbastanza leggero. Il Cileno, più giovane, era andato avanti, e io e l'americana correvamo in silenzio. Cominciava ad albeggiare alle nostre spalle, proiettando una luce giallastra che risaliva rapida il deserto a partire dal Kimal, montagna sacra alle popolazioni locali da tempi preincaici, che si ergeva proprio di fronte a noi. Il cielo incuteva rispetto, come sempre in Atacama. Proprio quella vastità e purezza ci avevano guidato fino a lì.
Per tornare indietro chiedemmo un passaggio ad uno dei primi camion che portavano viveri, materiale da costruzione, acqua e carburante all'OSF.
Da allora quelle corse notturne divennero un "must". Spesso a fine turno andavo giù, da solo o in compagnia, fino a raggiungere la guardiola all'ingresso della strada, dove c'era un buffo cane meticcio e impolverato (come tutte le cose), uno dei tanti che si trovano ovunque per la strada in Cile, che ci abbaiava furiosamente ma poi si lasciava coccolare. La security di ALMA non era molto felice di questa mia idea, e spesso tentava di fermarci e di trascrivere i documenti. Una volta ci offrì un gilet catarifrangente che dovemmo infilare al volo. In effetti era vietato allontanarsi dall'OSF senza permesso. Ma il direttore ce lo concesse per correre lungo quella strada straordinaria e segreta, incuriosito dall'idea che si stava preparando la Maratona di Santiago.
Dopo qualche tempo, con l'allenamento, arrivato alla guardiola, cominciai anche a tornare indietro. Il rettilineo finale, a causa della trasparenza dell'aria, sembrava più breve. E quindi non terminava mai. Una sola volta - camminando quasi sempre in salita al ritorno - riuscii a fare tutti i 28 km e tornare indietro alla base. Ma era decisamente troppo per me a quella quota. Era un periodo in cui soffrivo di DOMS e dolori vari. Ma quella strada, l'inimitabile volta stellata, il silenzio del deserto, e l'arrivo veloce dell'alba, rimarranno con me per sempre.

L'"ALMA Road" come appariva dall'ingresso della "Riserva Scientifica", a 2.400 m, nel 2005, quando ancora ALMA era allo stadio iniziale di costruzione. Dopo il rettilineo iniziale, la strada si inerpica sulla destra della foto, fino a raggiungere l'OSF, la "macchia bianca" visibile a metà montagna sulla destra. La strada poi continua fino a Llano de Chajnantor, a 5000 m, al di là delle montagne sullo sfondo, dove si trovano i 66 radiotelescopi da 12 e 7 m.
"Chajnantor" significava "il luogo del decollo", o "la strada verso il cielo" in lingua Kunza - un'antica lingua locale ormai quasi del tutto scomparsa. Era il luogo dal quale gli Atacameños pensavano che i desideri e le preghiere alle divinità prendessero il volo. Un significato quanto mai premonitore.