Tappa 6: Valtournenche – Ollomont (49 Km, 4.438 D+)
Durante la colazione in base vita, scambio due parole con Bruno, che è seduto allo stesso mio tavolo ed ho appena conosciuto, ma in realtà ho incrociato già in altre gare fatte negli ultimi anni. L’ho sempre guardato con ammirazione perché, pur avendo sulle spalle qualche primavera in più di me, ha una tempra incredibile ed affronta di continuo competizioni durissime, sempre con energia ed il sorriso stampato in faccia. Sta bene e pianifica anche lui con positività la prossima tappa: grande esempio!
Alle 9 in punto riparto, telefono a Laura, che è ancora in hotel con le bambine a Champoluc; ci incontreremo nel pomeriggio al Rifugio Magià, dove arriveranno con una breve escursione su sentiero. La giornata è bellissima e, ancora una volta, affronto senza difficoltà la salita che porta al Rifugio Barmasse; sono pur sempre 1000 D+ dopo 240 Km percorsi, ma continuo ad andare senza patemi. Vedo dapprima in lontananza la diga di Cignana, poi mi avvicino sempre più finchè, passandoci sotto, la trovo molto inquietante: sono Veneto e sono cresciuto ascoltando i racconti sulla tragedia del Vajont, ogni volta che vedo una diga vorrei starci alla larga un po’ come, dopo aver visto “lo Squalo”, da bambino avevo il terrore a fare il bagno in mare!

Arrivo al rifugio, sono l’unico concorrente in quel momento, ed ho sette volontari tutti per me che mi vogliono aiutare; mi sembra brutto ignorare il loro entusiasmo e mi faccio preparare un panino col salame. Ottima merenda di metà mattinata, lo divoro, ringrazio e proseguo verso la Finestra di Ersaz e, subito dopo, il ristoro/ alpeggio di Vareton, dove mi rinfresco e, dato il gran caldo e l’assenza di vegetazione nonostante gli oltre 2.000 metri di altezza, decido di darmi un’altra passata generale di vaselina, per evitare sfregamenti dolorosi.
Riparto euforico, il prossimo ristoro sarà al Magià, dove troverò Laura e le bambine, ma non metto in conto che questa tratta, di circa 9 km, sarà molto dura. Prima la salita alla finestra di Tzan, su pietraia e sotto il sole battente, poi una discesa lunga, ripida e tecnica, dove mi fermerò ad ogni torrente per bagnarmi testa e braccia (qui per fortuna ce ne sono diversi). Il rifugio sembra non arrivare più, il morale sta un po’ scendendo, potrei pensare ad un momento di crisi, che però passa in fretta, sia perché mi rendo conto che continuo ad essere in largo anticipo sui tempi che di volta in volta mi prefiggo, sia perché ormai il ristoro è lì, lo vedo, e vedo pure le mie ragazze che mi vengono incontro: che spettacolo!
Soliti festeggiamenti, abbracci ed entro nel rifugio per il chippaggio: decido che voglio caricare ancora di più il morale ed ordino un piatto di pasta del rifugio, lasciando perdere il ristoro ordinario. Ordino anche una birra

… ecco, adesso si mi sembra di essere in gita: mi trovo in un posto bellissimo, la giornata è splendida, c’è la mia famiglia; poi si, sto facendo il Tor des Geants, sono in gara e mi devo concentrare, ma adesso sembra solo un dettaglio trascurabile e mi godo il momento.
In questo frangente Giacomo non c’è, mi lascia solo con la famiglia e lo apprezzo tantissimo; mi racconterà più tardi che si è sdraiato un po’ sul prato e poi, data la giornata calda, il fatto che non si lavava da ormai quattro giorni, e data la presenza di una fontana di acqua corrente ricavata su un vecchio lavatoio, ha avuto l’illuminazione: si è denudato ed ha fatto un bel bagno gelido immergendosi nella fontana. Mi ha rivelato che è stato uno shock immediato da principio di congelamento, ma allo stesso tempo si è rigenerato, in pace con il corpo, con lo spirito e con la natura circostante: un grande!!
Riparto dal Magià verso il Rifugio oratorio di Cuney: si tratta di un vecchio santuario a 2.700 metri di altezza, la cui prima costruzione risale a metà 1600, che veniva frequentato dai valligiani nei secoli scorsi per la presenza di una sorgente benedetta. Non aspettiamoci un oratorio di salesiani della pianura padana, si tratta di un luogo isolato ed impervio di alta montagna. Arrivo al ristoro un po’ giù di corda, senza sapere realmente il perché; ritrovo Cesare, da molto tempo ormai abbiamo un passo simile, mangio un piatto di polenta con il sugo e riparto verso quello che per me è il posto più magico di tutto il TOR. Arrivo poco prima del tramonto al Bivacco Clermont, piccolissimo, in pietra, ma dove non manca niente. E’ bellissimo fuori, incastrato in un ambiente dove la vista a 360 gradi è mozzafiato, con due laghetti glaciali poco più sotto; ma è ancora più bello ed ospitale dentro: cucinino e tavolo per una decina di persone, oltre a 18 posti letto. I volontari sono gli stessi di quattro anni fa: la signora ai fornelli è sempre la stessa, sembra si trovi qui da tempo immemore, sempre con il sorriso.
Da qualche anno ho un accordo, che è anche un ultimo desiderio, con Laura: se e quando morirò, dovrà venire in questo posto a spargere le mie ceneri; però dovrà essere all’alba o al tramonto, in modo che la mia parte materiale possa godere per l’ultima volta di questo momento di magia, per venire poi cullata e trasportata dai venti gelidi per l’eternità… o almeno fino a quando una mucca d’alpeggio non mi fisserà al terreno con una margherita calda fumante!
Con questi pensieri nel cuore (mucca inclusa), mangio un piatto di pasta al bivacco, trangugio un po’ di mocetta e fontina col pane e riparto verso il Col Vessonaz (mancherebbe solo un bicchierino di genepy). Il colle è vicinissimo e ci arrivo rapidamente, scatto pure un paio di foto, perché il tramonto qui è da togliere il fiato.
Mi aspetta una discesa di dieci km con 1.700 D-. La prima parte è ripidissima e scivolosa, il terreno assolutamente non corribile; bisogna stare molto concentrati e cercare il giusto passo: se vai troppo lentamente il cervello va in tilt, non passa più, se vai troppo veloce rischi di maciullarti i piedi e riempirli di vesciche, oltre ad andare incontro a qualche contrattura. Ricordiamo sempre che al Tor il pericolo più grosso per molte tipologie di infortunio è rappresentato dalle discese. Le salite possono essere durissime, ti spezzano il fiato, sembrano non passare mai, ma sono le discese a metterti ko e costringerti, in molto casi, al ritiro.
Affronto la prima parte con molta cautela, ed infatti vedo gli atleti davanti a me che mi distanziano, ormai tutti con la frontale accesa; via via che la discesa diventa meno ripida, ma non certo meno difficile, prendo confidenza ed aumento la velocità, spesso corricchiando, se il terreno me lo consente. Supero qualcuno, ma non vengo superato. Forse vado troppo forte? Probabilmente si, perché sento sempre più il formicolio alle dita dei piedi, e fa sempre più male. Rallento e va un po’ meglio, supero nuovamente Cesare, che è in compagnia di un ragazzo friulano di cui non ricordo il nome, loro hanno deciso di scendere più cauti, sarà la scelta giusta? Questa discesa mi ha richiesto veramente tante energie, e comincio a soffrirla; non vedo l’ora che finisca e di arrivare al ristoro, per resettare tutto e ripartire, il morale comincia ad essere basso, ed il motivo non ci sarebbe, visto che sto andando bene.
Finalmente vedo le luci del paese, sbuco sull’asfalto, chiamo Laura e le dico che questa discesa mi sta proprio deprimendo, non vedo l’ora di arrivare. E’ una falsa speranza, perché mi trovavo in una frazione di Oyace, e vengo ributtato sul single track, vado veloce per terminare l’agonia prima possibile. Ecco che in fondo intravedo di nuovo l’asfalto, sto correndo, aumento l’andatura, devo stare attento perché è buio, forse non sono lucidissimo e forse la frontale altera il senso della profondità. Sto per arrivare all’asfalto, c’è una freccia che indica di girare a destra; svolto, ma non mi rendo conto che il passaggio da sentiero ad asfato è un gradone di circa 30 centimetri: il risultato è che cado rovinosamente a terra, a duecento metri dal ristoro!! Non so come, e probabilmente se simulassi la caduta dieci volte non succederebbe più, sbatto violentemente la parte bassa del polpaccio (vicino alla caviglia) sul gradone di asfalto. Sento un dolore come se mi avessero infilato una lama, mi rendo conto di essere in mezzo alla strada ed in prossimità di una curva stretta. Rotolo velocemente a bordo strada, e rimango immobile, quasi sotto shock e cercando di capire cosa sia successo. Due minuti dopo arriva una macchina a velocità sostenuta: ca**o qui si poteva mettere male!
Dopo almeno cinque minuti mi alzo e mi rendo conto che non riesco a camminare, non riesco a caricare il peso sul piede sinistro. Avanzo a passettini e ci metto almeno venti minuti ad arrivare al ristoro. Penso che si tratti di una botta superficiale e che il dolore sparirà di lì a poco; mi rivolgo all’infermiera lì presente, che mi conferma che i fisioterapisti sono ad Ollomont, 12 km dopo. Mi propone una fasciatura per stabilizzare la gamba, la ringrazio ed accetto: meglio che niente. C’è Laura con me, che mi porta qualcosa da mangiare e mi massaggia la gamba: è più una coccola che un massaggio. Guardo dietro di lei, ci sono delle persone: “Tesoro, guarda, c’è Guendalina Sibona!” Laura si gira, e si dimentica di avere un marito moribondo!! Va da Guendalina, sempre molto gentile ed alla mano, le fa i complimenti per le sue imprese, è dispiaciuta di non avere con sé il libro per farselo autografare… ehi moglie, torna qui, sto male!!! Non avevo in programma di fermarmi ad Oyace, non avevo sonno, ma decido di dormire un’ora per lasciare che il dolore della botta passi. Quando mi rialzo dopo la dormita, non è cambiato niente: non riesco a camminare se non a piccoli passettini. Sono perplesso, Laura mi guarda minacciosa e mi dice una sola frase: “non penserai mica di ritirarti, vero?” Mi basta questo. “Mi devono sparare e mi devono strappare il pettorale con la forza”, la decisione è presa, si va avanti in qualsiasi modo fino alla fine.
Prendo un Brufen per attenuare il dolore, esco dal ristoro e trovo Giacomo, che cerca di incoraggiarmi in tutti i modi, sempre positivo, ma lo sguardo parla chiaro: sei spacciato amico, ti vedo male!
All'uscita del ristoro di Oyace, in piedi, in equilibrio instabile, termina ufficialmente il mio TOR da atleta, in cui mi sto adoperando per una prestazione sportiva dignitosa, ed inizia un altro TOR, fatto di sofferenza, con l'obiettivo di arrivare in fondo. Insomma, questa gara è stata il mio sogno da quando ancora non facevo trail, è il TOR, non la corsa della sagra del peperone di Zero Branco, e va onorata fino in fondo.
Inizia subito la salita per il Col Brison, avanzo lentissimo e cerco di trovare una configurazione del passo efficiente per la situazione attuale. All'istante penso che così non andrò da nessuna parte, però noto presto una cosa che mi dà morale: in parecchi mi superano, ma non vanno poi molto più veloci di me, ed inoltre durante la salita supero due persone: incredibile! Quando ricomincio ad abbattermi perché non riesco ad avanzare, sbuca il ristoro di Bruson arp, prima del colle: non riesco a credere che sono riuscito in versione zombie a fare 1.000 D+. Mi ricarico e percorro gli ultimi 350D+ fino al colle, ed inizio un passo alla volta (è il caso di dirlo) la discesa verso Ollomont. Ci metto un sacco di tempo, ma riesco ad accodarmi a due atleti che vanno molto piano, riesco a tenere il passo e, incredibilmente, arrivo al paese. Dopo sei ore dalla partenza (un'eternità) da Oyace, arrivo alla base vita. C'è ancora speranza, di sicuro i fisioterapisti si inventeranno qualcosa. Mancano 50 km all'arrivo, sarà durissima, ma posso ancora farcela. Tendone, Laura, fisioterapisti, una brandina: crollo esausto.
](./images/smilies/eusa_wall.gif)